Tanto per noi che Sambuca-Sancascianese vale come un quarto di finale di Champions e che il “Walter Franchi” di Greve è come il Bernabeu, Superlega sì o Superlega no ci cambia poco.

Anche se ci fa arrabbiare a sufficienza anche solo l’idea di chi vuole toccarci e rovinare il nostro Gioco.

Perché in fondo per chi del calcio non ama solo l’immagine televisiva ma anche i profumi, i sapori, i rumori, le sensazioni, già era troppo moderno quel calcio che improvvisamente a qualcuno è sembrato vecchiotto (e non abbastanza remunerativo).

È indicativo che i superleghisti abbiamo tirato giù le loro carte nel momento cruciale.

Quando il Covid ha trasformato definitivamente il calcio in qualcosa di intangibile, lontano dai tifosi, e soltanto per utenti, per telespettatori, per abbonati, per bancomat umani (non a caso il buon Agnelli parla di “fanbase”, mica di tifosi, di appassionati, di torcide).

Magari ad altre latitudini, in altri continenti, in una globalizzazione selvaggia (perché il calcio è universale ma, paradossalmente, al tempo stesso no-global: hanno un senso lo stemma, i colori, lo stadio, l’appartenenza).

Quello che di bello può fare la Superlega, invece, è forse tirare fuori – come reazione – da ogni tifoso la voglia del calcio vero. Delle curve piene. Di quello vissuto e non solo visto.

Quello che le nuove generazioni nemmeno conoscono bene, perché gli studi ci dicono che i più giovani ormai si limitano agli high-lights a fine match, dove resta solo il meglio del meglio (e invece il calcio è anche nella noia di uno 0-0 al freddo e al gelo in curva, in uno stop sbagliato, nelle pause e nei momenti di vuoto).

Quello che si percepisce adesso sui campi di Serie D e Eccellenza (gli unici attivi), dove ogni domenica qualche tifoso che sbircia dalla rete o dai dietro un muro di recinzione c’è sempre. Perché c’è voglia a respirarlo sul serio di nuovo, come prima, più di prima della pandemia.

Ecco. Sarebbe bello se il risultato della Superlega alla fine fosse quello di far muovere il calcio invece nella direzione opposta. Non avanti. Ma finalmente indietro. Non fast ma slow.

Meno televisioni e più gente allo stadio (appena si potrà, speriamo presto). Meno campioni e più uomini veri. Meno soldi e più sorrisi.

Ci sono momenti in cui diventare reazionari è un dovere morale: e cioè quando le rivoluzioni (o pretese tali) sono delle boiate pazzesche.

Se nessuno gli darà seguito, il progetto Superlega fallirà da sé. Perchè il calcio non esiste senza tifosi (anche quando da questi vuoi solo il portafoglio).

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