Ci siamo riportati a casa (quella vera) la Coppa dopo 53 anni. E per una volta, probabilmente, la nostra nazionale è stata d’esempio all’Europa.

Sempre dentro le righe, poche sceneggiate (a parte quella di Immobile, morto e risorto in area di rigore, vabbè), poche pedate, un bel gioco, tanti sorrisi. Il Mancio e i suoi ragazzi hanno scritto in queste settimane la storia di un’Italia nuova e di italiani un po’ diversi da come ci dipingono (e come ci piace spesso farci dipingere).

E in una domenica londinese lunghissima, l’unica scena stonata non è stata roba nostra. Ma è stata roba di quei giocatori inglesi che, al momento della premiazione, si sono tolti dal collo la medaglia del secondo posto un attimo dopo averla ricevuta.

Non so se l’avremmo fatto anche noi (forse non in questa occasione, perché perdere ai rigori contro i padroni di casa sarebbe stata comunque un’impresa). Però è un malvezzo costante di tante premiazioni, non solo a livello internazionale. Ma a volte anche sui campi dei settori giovanili, perfino in qualche torneo estivo.

Ma in mondovisione fa più male. Soprattutto per i più giovani. Da parte di coloro che sostengono di essere i padri del fair-play. E soprattutto dopo una partita senza polemiche, senza decisioni arbitrali contestate, senza macchie o ombre (che pure non dovrebbero essere alibi).

Come se quella medaglia “d’argento” fosse qualcosa di cui vergognarsi e non qualcosa che rende fieri, che ci ricorderà comunque non che siamo i primi degli ultimi ma semmai che siamo andati tanto così dall’essere primi.

È il senso stesso dello sport: per ogni vincitore deve esserci uno sconfitto, non esiste l’uno senza l’altro.

Come se ai Giochi Olimpici gli atleti, sul podio, sfilassero via l’argento e il bronzo dal collo e non lo tenessero per tutta la vita tra i ricordi più belli, testimonianza del senso stesso del loro sforzo e dei sogni coltivati da bambini.

Per questo ci erano piaciute da morire le parole di Luis Enrique dopo la semifinale: il suo riconoscere all’Italia le qualità e i meriti. Che è anche il modo migliore di rendere onore a se stessi.

Tra le tante, ci sarebbe anche bisogno di questa piccola grande rivoluzione culturale a sfondo sportivo: insegnare ai giovani, fin dai vivai, in ogni sport, che la sconfitta non è una condanna ma uno stimolo. Che quel secondo posto vuol significare che, da un istante dopo, ci sarà da lavorare ancora più duro per centrare il primo posto, la prossima volta, il prossimo anno, alla prossima occasione (come scriveva Hornby: la cosa bella del calcio è che c’è sempre un’altra stagione).

C’è qualcuno che potrebbe considerare un fallimento la sconfitta (a testa altissima) in finale di Matteo Berrettini a Wimbledon contro il più grande tennista della storia? Oppure è soltanto la scintilla che porterà il nostro a volerci riprovare riprovare riprovare riprovare fino a farcela? La dichiarazione più bella l’ha fatta proprio lui, a Wembley, quando ha ricordato, nei festeggiamenti azzurri, che tra quindici giorni per lui ci sono i Giochi. E aveva lo sguardo di chi adesso quell’oro vuole prenderselo, appena qualche ora dopo una sconfitta.

È così. Il vero sportivo guarda sempre l’ostacolo successivo da saltare, non sta a piangere su quello che non è riuscito a superare un attimo prima. Ricordiamolo ai nostri ragazzi.

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