Siamo venuti a conoscenza della vicenda del bruttissimo episodio di bullismo avvenuto nell’ambito di una squadra di calcio giovanile del nostro territorio nella serata di lunedì 23 ottobre.

Lo abbiamo saputo perché abbiamo notato su Facebook lo sfogo della mamma del ragazzino rimasto vittima dell’atto (un 14enne) da parte di tre compagni di squadra. Un altro compagno di squadra è intervenuto in sua difesa.

Così come abbiamo subito notato anche il post a commento del sindaco, che ha preso posizione sui social. E il tenore di alcuni commenti a corredo: in molti casi di elogio, di condivisione, in altri di critica (anche pesante) ai tre ragazzini (e alle loro famiglie).

E pur con tutte le lodevoli intenzioni del mondo, costruttive, di umanissimo e comprensibile sfogo da parte della mamma (che ha postato anche la foto del figlio, ripresa peraltro anche dal primo cittadino), siamo rimasti da subito un po’ dubbiosi.

Non tanto da fatto che la mamma di un bambino che ha subito un atto così vile si sia sentita di doverne parlare pubblicamente, su un social network (peraltro in maniera molto civile). E’ umano.

L’abbiamo anche contattata, chiedendole se questa storia potevamo raccontarla insieme. Ma mentre lo facevamo già riflettevamo su come (e se) farlo.

Alla luce della sacrosanta tutela (obbligatoria per i giornali) della riservatezza dei minori: di chi ha subito l’atto, di chi ha cercato di evitarlo, di chi l’ha commesso.

Come vedete anche nell’introduzione di questo editoriale abbiamo omesso ogni riferimento geografico o di altro tipo che renda riconoscibili i protagonisti. Purtroppo, e sottolineo purtroppo, potrete trovare tutti i dettagli che volete in molti altri articoli.

Noi abbiamo fatto una scelta diversa (magari anche contro corrente, magari anche criticabile). Ma che, vista la pervasività della notizia e il nostro ruolo all’interno della comunità locale, abbiamo il dovere di spiegare ai nostri lettori.

Perché è vero che certi atti vanno condannati. Perché è vero che chi li subisce va incoraggiato e sostenuto. Perché è vero che va lodato chi si adopera per cercare di evitarli.

Allo stesso tempo però è anche vero che la pervasività dei giornali, in particolare quelli on line, e dei relativi social network (con tanto di commenti e condivisioni) diventano potenziali macchine stritolatrici per bambini/ragazzi di quell’età. Oggi e nei prossimi mesi e anni, visto che gli articoli rimarranno pubblicati per sempre.

Dove si ferma il diritto/dovere di cronaca e dove inizia la tutela dei minori coinvolti in fatti del genere? Dove si applica la capacità di deontologico discernimento da parte del giornalista, chiamato ovviamente ad andare oltre a sfoghi, prese di posizione (anche legittime e ufficiali), e che invece deve andare incontro in modo completo alle tutele dei minori stessi?

Nessun oscuramento, nessuna censura. Per carità. Solo una seria riflessione sul ruolo e i modi dell’informazione in casi come questo. Che vedono al centro minori in situazioni molto delicate.

E quindi… . Quindi per noi questa vicenda si chiude qui. Augurandoci che la questione sia risolta in modo sereno e costruttivo (non abbiamo dubbi su questo) fra società sportiva, educatori, famiglie, ragazzi, istituzioni. Senza (almeno) i nostri riflettori puntati addosso.

Matteo Pucci

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