Avete mai fatto esperienza del buio?

Io non sapevo cosa fosse davvero il buio finché, con un gruppetto di amici, non mi sono infilato nelle profondità della Tana che Urla, una grotta naturale che si insinua sotto le montagne apuane.

L’importanza storica di questo luogo sta nell’esser stata la prima grotta mai mappata nel continente europeo. È una grotta dove, paradossalmente, non si scende, ma si sale dentro la montagna. 

La disciplina in questione si chiama speleologia, ed è un’attività altamente rischiosa per chi non è pratico.

Scegliamo quindi di fare questa esperienza accompagnati da Simone Cecchi, guida canyon specializzata, titolare del Toscana Adventure Team (www.tateam.it). 

Ho conosciuto Simone diversi anni fa, durante un’altra avventura che, soprattutto per ragioni tecniche, non potevo affrontare da solo.

Ci trovammo subito in sintonia, accomunati dallo stesso obiettivo: la ricerca della bellezza. Con lui ho poi svolto altre escursioni, tanto da sviluppare un totale rapporto di fiducia, fondamentale in questo tipo di attività.   

“Fiducia” è un concetto a rischio di estinzione, ma ci sono situazioni, come quella che sto raccontando, dove invece mantiene tutto il suo profondo valore, probabilmente perché il collegamento tra fiducia e sopravvivenza è direttissimo. 

L’ingresso della grotta è poco più che una fessura nella roccia, ma il vento freddo che soffia verso l’esterno lascia presagire la profondità di ciò che ci aspetta.

Si procede in fila, uno dietro l’altro, attraverso una rete di cunicoli scavati dall’acqua che ancora scorre abbondante e gelida sopra (e dentro) le nostre mute di neoprene. Raramente si può procedere in piedi, molto più spesso si striscia o ci si arrampica sempre più in profondità e sembra di percepire il peso della montagna sopra di noi.

Man mano che procedi, via via che passa il tempo, ti accorgi di esserti cacciato in uno dei luoghi più inospitali al mondo, dal quale non avrai la possibilità di uscir fuori in un attimo, se malauguratamente cambi idea.

È a questo punto che entra in gioco l’abilità di controllo sulle proprie emozioni e sui propri pensieri. Direi che non c’è scuola migliore del filo per questo, se non la forza dell’amicizia.

Reynold Messner dice che compiere imprese estreme da soli è più difficile perché non hai nessuno con cui dividere la paura, e quindi ne devi sostenere tutto il peso te.

Noi siamo in cinque, e questo fa tutta la differenza del mondo.

Strisciando ci spingiamo fino ad arrivare in una stanza enorme, la cui “porta di accesso” è una fessura così stretta che se avessi tirato fuori la lingua mentre l’attraversavo avrei leccato le stalattiti.

Con le lampadine accese sui nostri caschi riusciamo a illuminare quelle straordinarie sculture calcaree che respirano e si modellano su una scala di tempo totalmente incomprensibile per un uomo.

Proseguendo oltre, arriviamo fino al limite consentito dalla nostra abilità e dalla nostra attrezzatura. Ci fermiamo quindi in una piscina naturale dalla quale tramite un sifone si accede ad altre stanze e altri percorsi. 

Ecco, è qui che sta per succedere la cosa più bella. 

Simone ci invita a mettersi in cerchio e spegnere le luci delle frontaline, in silenzio. 

Quando a casa nostra entriamo in una stanza e spegniamo la luce ci accorgiamo che i nostri occhi lentamente si adattano al buio e cominciamo a scorgere le sagome delle cose che ci circondano. Ecco in grotta questo non succede mai. 

È il nero, profondo e purissimo, pesante e denso. L’occhio cerca, cerca dappertutto finché, stremato, si dimentica di essere occhio. 

Mentre ci lasciamo inghiottire dall’oscurità, nel silenzio, ognuno di noi comincia a sentire (ma ce lo diremo soltanto dopo) un lieve suono di voci umane, simile a gente che ride, bambini che parlano. Voci squillanti, prevalentemente femminili. 

“Simone, c’è qualcun altro in grotta?” chiedo dopo aver riacceso le luci.

Lui sorridendo risponde che no, non c’è nessun altro, ma che si tratta di un’allucinazione uditiva molto frequente in ambienti del genere, ed è dovuta principalmente all’acqua. 

Sono ancora sconvolto dall’armonia del suono di quelle voci. Trasmettevano una serenità che credo sia paragonabile a quella che prova un bambino nel grembo quando sente la voce della mamma. 

Scombussolati da questa esperienza di vera e propria regressione ci prepariamo a prendere la via del ritorno fino alla superficie. 

Rivedere la luce, tornare a respirare aria fresca fu l’ennesima sensazione straordinaria di quella giornata. 

Erano effettivamente trascorse poche ore dall’ultima volta che avevamo visto il sole, ma l’intensità dell’esperienza fu tale che ci sembrò di vederlo per la prima volta. Fu una rinascita.

Se mi azzardo a parlare con la seconda persona plurale (noi) è perché sono certo che stessimo tutti provando le stesse sensazioni, sicuro che le nostre emozioni fossero sincronizzate.

Ce lo dicevamo certo, ma l’indicatore principale erano i nostri volti, i nostri occhi. Un’autentica esperienza di condivisione fisica e spirituale.

L’abbiamo vissuto, l’abbiamo fatto e lo possiamo fare ancora, e lo faremo dopo aver superato il buio di questo momento storico.

Coraggio!

Didje Doo

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