La mattina del 12 giugno 1991 avevo nove anni, la scuola era finita da poco e sicuramente ero a pescare in Pesa. Ero sempre a pescare in Pesa.

Dall’altra parte del mondo stava succedendo la seconda eruzione vulcanica più potente del secolo.

28 anni dopo, sono sulla via che porta al cratere sommitale di quello che ancora si chiama Monte Pinatubo, ma che appare totalmente diverso da prima.

Immaginare come doveva essere la Terra prima che si formassero i fiumi e le valli è facile quassù. È un vero viaggio nel tempo.

Tutta l’area circostante è coperta di materiale piroclastico modellato dall’acqua di quelli che prima erano fiumi, e che pian piano ricostruiscono il loro percorso verso il mare.

Ancora oggi è desolante. Questi sono processi che impiegano tempi ben superiori ai nostri.
In molti hanno pagato a caro prezzo questa catastrofe naturale, ma probabilmente il popolo indigeno degli Aeta è quello che se la passa peggio.

Gli Aeta sono una delle tante etnie indigene che da tempi immemori popolano l’arcipelago filippino. Esteticamente più simili agli africani che agli asiatici, sono di bassa statura, con i capelli ricci e la pelle molto scura.

Vivevano nelle foreste che coprivano i pendii della montagna da quando nel XVI secolo vi si rifugiarono per sfuggire agli spagnoli.

Di nuovo senza una terra, oggi si mescolano con le altre genti che popolano villaggi di lamiera e fango, mentre la loro identità culturale si dissolve come cenere al passaggio dell’acqua.

L’impermanenza è una delle leggi dell’universo, ma è davvero faticoso farsene una ragione.

L’escursione inizia con un lungo tratto su fuoristrada che risale l’enorme lahar che copre la valle. I detriti che si incontrano lungo la strada sono via via sempre più grossi man mano che si sale, e ciò mette alla prova le abilità del conducente e le vertebre della mia schiena.

Il trekking vero e proprio inizia a un paio d’ore a piedi dalla vetta e il sentiero è coperto dalla vegetazione soltanto nella parte finale.

Una volta lassù si apre alla vista un cratere di quattro chilometri di diametro sul fondo del quale si adagia un lago color turchese.

C’è una quiete sovrannaturale su quell’acqua ed è difficile immaginare quale inferno si sia scatenato qui quel famoso 12 giugno.

Si dice che “dove nasci è questione di fortuna” e a noi del Chianti ci è andata bene, ma credo comunque che non sia sano perdere il legame con la potenza della natura selvaggia.

Ci aiuta a regolare le nostre scelte e le nostre azioni in base ad una consapevolezza più reale di come funziona casa nostra.

Qui non esiste niente che non contribuisca o abbia contribuito in un modo o nell’altro a preparare le condizioni ideali per noi.

Recentemente gli scienziati hanno dimostrato ad esempio che le eruzioni vulcaniche sono state determinanti nel fornire alcuni ingredienti decisivi per lo sviluppo della vita sulla Terra. Quindi come si può maledire un vulcano??

Sul Pinatubo si impara, anche se non ci piace, che questo pianeta non è stato creato per noi.

Noi in realtà siamo solo una piccola parte della storia, un episodio meraviglioso ma di scarsa rilevanza. Eppure abbiamo una responsabilità enorme, visto che la nostra sopravvivenza dipende da un equilibrio delicato che abbiamo il potere di modificare.

Didje Doo

@RIPRODUZIONE RISERVATA