TAVARNUZZE (IMPRUNETA) – Dal Bastan Football Club di Herat, Afghanistan, al Centro Storico Lebowski. E’ il lungo viaggio calcistico compiuto da Fatima, Susan e Maryam, le tre nuove giocatrici grigionere.

“È un annuncio di calciomercato un po’ strano: manca il cognome delle atlete. Ci hanno detto di attendere a scriverlo, per questioni legate alla sicurezza delle famiglie rimaste in Afghanistan” scrive il CSL sui social.

“Le ragazze si allenano con noi già da qualche settimana – spiegano i grigioneri – Abbiamo aspettato oggi a comunicarlo per una questione di metodo: quando è possibile cerchiamo prima di agire, mettere a verifica quanto fatto, agire nuovamente e solo dopo raccontarlo. Ma ieri la notizia è uscita sui principali media e ci sembra allora opportuno accompagnarla con alcune nostre riflessioni”.

E seguono così le motivazioni profonde del gesto firmato dal CSL:

“Con il ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan per le sportive è proibito gareggiare e la loro incolumità è a rischio, come simboli di un malcostume da estirpare.

Buona parte delle giocatrici del Bastan FC sono dunque fuggite dal Paese e Fatima, Susan e Maryam, insieme all’allenatore Najibullah, sono arrivate in Italia con l’aiuto del COSPE, un’associazione senza scopo di lucro che si occupa in vari scenari internazionali complessi di tutelare le figure che si trovano a rischio di subire discriminazioni e violenze.

Approdate a Firenze e ospitate dalla Caritas, potranno ora riprendere a praticare lo sport che amano con la nostra maglia, grazie anche alla grande sensibilità dimostrata dalla FIGC.

Siamo orgogliose e orgogliosi di essere stati considerati un ambiente sportivo e umano all’altezza di questo compito, ma ci sentiamo anche in una posizione delicata e abbiamo bisogno di aprire una discussione.

Viviamo in Italia, uno dei paesi i cui governi nei decenni hanno maggiormente affiancato gli Stati Uniti e la NATO nella distruzione di interi territori, nella devastazione di tessuti sociali e nel saccheggio di risorse: azioni descritte come operazioni umanitarie. Questo è successo in varie aree del Pianeta, tra cui in Afghanistan.

Siamo parte in causa del disastro, anche se negli anni abbiamo più volte partecipato, insieme a milioni di altre persone, ai tentativi di opporsi alle logiche della guerra e dell’imperialismo, manifestando la nostra contrarietà.

L’Afghanistan è un esempio particolarmente emblematico e doloroso della spregiudicatezza delle strategie egemoniche della NATO: ostaggio di un regime reazionario e oscurantista precedentemente finanziato in funzione anticomunista, poi devastato dalle “bombe umanitarie e democratiche” dei nostri governi, dilaniato per vent’anni dagli scontri armati, dagli attentati e dalla presenza delle truppe di occupazione, e infine abbandonato, come se nulla fosse, al ritorno di quello stesso regime reazionario di vent’anni prima. I Talebani: prima alleati e amici come in Rambo III, poi simbolo di ogni male dopo le Torri Gemelle, poi effetto collaterale delle politiche di destabilizzazione in Asia Occidentale e, infine, da qualche mese a questa parte, di nuovo “legittima forza di governo”, addirittura presentata come partner nella lotta al commercio e alla diffusione dell’eroina in Occidente, quando in vent’anni di occupazione la situazione non è mai davvero cambiata, con i campi di papavero che continuavano a finanziare i signori della guerra e l’eroina che non ha mai smesso di arrivare sui nostri mercati a fiumi.

Una vicenda che fa gelare il sangue nelle vene, e in cui, nella nostra parte di mondo, non ci sono innocenti: colpevoli sono ovviamente i governi con le mani lorde di sangue, gli eserciti e i trafficanti di armi, ma colpevoli in fondo lo siamo tutte e tutti, per aver tutto sommato lasciato fare.

Ci sentiamo in una posizione delicata perché iniziative come la nostra hanno il compito strutturale di “lavare” le responsabilità dell’Occidente. Spesso il gesto gentile, caritatevole, è esattamente l’altra faccia di una medaglia fatta di guerra e colonialismo: il mio Paese benestante devasta altri territori, porta dolore e distruzione, si rende complice di governi autoritari e allora io, con un senso di colpa misto anche a un senso di superiorità culturale, faccio la “buona azione”, che rimane estemporanea e serve quasi solamente a pulirmi coscienza e immagine.

In questo scenario, le donne stesse non sono mai state guardate come persone insieme a cui bisogna strappare uno spazio di organizzazione autonoma, ma come entità passive per cui «liberare» significa, paternalisticamente, «proteggere».
Non avevamo ancora annunciato l’arrivo delle ragazze in grigionero perché stavamo ancora riflettendo su come la narrazione simbolica fosse equivoca, mentre la realtà delle relazioni, dei legami, della solidarietà reciproca, delle azioni lo fosse in misura ben minore. Abbiamo lasciato “parlare” la militanza quotidiana, minuta.

Ci consideriamo, nel nostro piccolo, una realtà di lotta che vuole rompere con le condizioni esistenti e portare cambiamento, cercando di comunicare attraverso le azioni prodotte.

Pensiamo che lo sport sia un importantissimo strumento di liberazione personale e collettiva, un momento di riappropriazione e rivendicazione del proprio corpo che non dobbiamo pensare scontato alle nostre latitudini, come se fosse solo un problema di Paesi e popoli “più sfortunati”. Vogliamo liberarlo sempre di più dalle logiche di sfruttamento economico e di oppressione politica e culturale.

Amiamo spesso ripetere che al Lebowski vogliamo che ogni persona porti quello che desidera, le proprie conoscenze e competenze, i sogni e i bisogni, per dare il suo contributo alla crescita collettiva.

Fatima, Susan e Maryam sono donne che sanno giocare a calcio, esattamente come Alice, Virginia, Miriam e tutte le altre. Siamo felici di averle qui con noi, a condividere percorsi sportivi, politici e umani.

Benvenute ragazze”.

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