foto tratta dal sito di Sky Sport

Non so se qualcuno di voi è davvero in grado di seguire con piacere e partecipazione, in tv, le partite del calcio-covid, con gli spalti vuoti e le urla dei calciatori che nemmeno negli allenamenti degli amatori (con tutto il rispetto).

Se qualcuno c’è, mi faccia sapere e mi spieghi dove sbaglio io.

Real-Inter di ieri sera è stata l’apice di questa involuzione dello spettacolo. Uno dei grandi classici del calcio europeo derubricato a partita senza importanza, in uno stadio periferico, perché a quel punto giocare al Santiago Bernabeu o nel centro sportivo dei blancos non cambia molto. Anzi, così alla fine il vuoto si sente meno.

Se erano sopportabili certe scene nello sforzo di chiudere la scorsa stagione, diventa quasi assurdo immaginare tutta una annata così, in Serie A e nelle Coppe europee.

Dubito che la pandemia ci abbia reso (e ci renda in futuro) persone migliori.

Ma forse qualcosa di buono, in ogni ambito, ci può lasciare.

Tipo ricordarci, una volta di più, che soprattutto nel calcio il pubblico non è un accessorio ma parte integrante dello spettacolo.

Visto da ogni prospettiva. Anche da quella del campo. Si sarà divertito Neuer ad alzare l’ultima Champions nello stadio Da Luz deserto o quasi?

C’è gioia vera nel festeggiare un gol decisivo con la stessa enfasi che nella partitella del venerdì?

Eppure, se ci pensate bene, è quello di cui ci hanno convinto per anni, vendendoci un abbonamento tv dopo l’altro.

Ci hanno raccontato che i tifosi erano solo clienti di un cinema globale. Che bastava che pagassero il loro obolo, restassero sui loro divani e non c’era nessuna differenza.

Ma il calcio è come il teatro. Senza pubblico non è la stessa magia. È un’altra roba.

Eppure Nick Hornby ce lo aveva detto chiaro che era così, quando parlando del suo Arsenal aveva scritto: “Ok, va bene tutto, ma non lo so, forse è qualcosa che non puoi capire se non ci sei dentro. Come fai a capire quando mancano 3 minuti alla fine e stai 2-1 in una finale e ti guardi intorno e vedi tutte quelle facce, migliaia di facce, stravolte, tirate per la paura, la speranza, la tensione, tutti completamente persi senza nient’altro nella testa. E poi il fischio dell’arbitro e tutti che impazziscono e in quei minuti che seguono tu sei al centro del mondo e il fatto che per te è così importante, che il casino che hai fatto è stato l’elemento cruciale in tutto questo, rende la cosa speciale; perché sei stato decisivo come e quanto i giocatori e se tu non ci fossi stato a chi fregherebbe niente del calcio?”.

In questi mesi di non-calcio e non-sport, a me la cosa che mette più malinconia – e mi capita più spesso – è guardare le foto delle tribune, delle curve, i colori, le facce della gente che c’era fino a un anno fa.

La curva Fiesole o il muro giallo del Signal Iduna Park di Dortmund. Ma anche soltanto la Curva Moana Pozzi del Lebowski, il suo incessante coro che dura 90 minuti qualunque sia il risultato.

No, il covid non ci renderà persone migliori. Forse addirittura peggiori.

Ma forse ci avrà insegnato, nel suo piccolo, che è meglio un Sambuca-Libertas “in presenza” che un Real-Inter sul divano di casa. Per noi e per le nuove generazioni di tifosi.

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