FIRENZE – E’, senza timori di essere smentiti, il miglior giornalista sportivo della nuova generazione. Già direttore de L’Unità, opinionista Rai e Sky (lo vedete tutti i giovedì di Europa League), commentatore su Radio Sportiva.

Marco Bucciantini, campigliese, inflessione livornese e capacità di raccontare tipica di tempi passati, ha iniziato il suo percorso da Firenze. Dove ha lavorato per anni e dove lo riportiamo in un piccolo viaggio fra i nostri campi di provincia e una serie A a forti tinte chiantigiane, fiorentine e toscane.

Marco Bucciantini, una delle “penne” e delle voci più apprezzate del giornalismo sportivo italiano

Bucciantini lei ormai è un opinionista affermato a livello nazionale, ma come tutti è partito… dal basso. I campionati dei dilettanti sono partiti: come vede il calcio dilettantistico… 2.0?

“Li ho giocati quei campionati, quindi li ho profondamente amati. Poi da cronista, nello sguardo, l’unica differenza fra professionismo e dilettantismo è estetica, che nello sport è importante perché agli atleti si chiede di essere superiori a noi, di mostrarci potenzialità che sono nella natura ma non nelle capacità di tutti. Ma c’è un’immensa parte di sport, di calcio in particolare per il suo essere di “squadra” e popolare, che realizza il “contratto umano”, per usare la bellissima idea di Barthes, e non fa differenza il livello della prestazione: permette a ognuno di sfogare forze, paure, angosce, emozioni, consumarle sul campo e perfino sugli spalti, di nascondere debolezze e vigliaccherie nei compiti diffusi della squadra o nell’appartenenza alla comunità che tifa, misura gli uomini fra sé e contro le resistenze delle cose e degli spazi. Aiuta le timidezze a uscire fuori, incoraggiate dagli altri. Se ci pensa, il perimetro legale e sentimentale di un calciatore o di un tifoso è vasto, assai maggiore di quello codificato nella vita quotidiana. Per questo detesto gli eccessi, in uno spaccato di mondo che già ne giustifica molti. Insomma, il calcio dilettantistico è un valore decisivo: è l’accesso – per tutti – allo sport più popolare e socialmente importante di questo Paese”.

La Toscana, dove lei è nato e dove ha lavorato a lungo, ormai è una sorta di “vivaio” per le panchine di A: c’è un motivo secondo lei?

“Forse c’è, ma non saprei intuirlo. E generalizzare significa togliere qualcosa alle diverse biografie. Tentiamo qualche ragionamento: sicuramente, questa è una terra cavillosa, polemica, critica, incontentabile: un elenco di difetti che però stimola la crescita, l’aggiornamento, la messa in discussione. Carburante per migliorare. Poi ci sono molte squadre nel professionismo, magari poche in serie A ma poi è piena la Lega Pro: se guardi chi sono i toscani al vertici, nessuno di loro è partito dalla grande squadra, sono tutti allenatori che hanno dovuto vincere o affermarsi prima a un livello inferiore, e quelle squadre sono state la loro palestra, nel caso di Sarri una gavetta lunghissima. Due di loro – Spalletti e lo stesso Sarri – hanno giovato del talento di Corsi, che all’Empoli ha spesso avuto coraggio e pazienza per lanciare e difendere tecnici. Spero che queste storie, come le ultime di Semplici e Baroni, tornino a dare valore al lavoro “lungo” contro gli “ereditieri” che si ritrovano in panchina sei mesi dopo il ritiro. Ecco, se devo trovare un punto comune ai nostri corregionali, mi piace che sia questo: sono biografie. Piene di idee, ma anche di pane duro, di fallimenti, di lotte, di indole e vocazione, di passione e di pazienza”.

Qua in Chianti abbiamo ben due tecnici in Serie A, che lei rammentava: Leonardo Semplici e Marco Baroni: ci faccia un pronostico sulla loro stagione.

“Sarà dura, lo sanno, ma arrivare in Serie A così li fortifica. Baroni è il primo allenatore che ho seguito per lavoro, da garzone di bottega al Corriere di Firenze: mi è capitato di vedere la sua Rondinella, con Ciccio Tavano goleador. I ricordi affezionano. Il Benevento deve avere lo stesso coraggio che ha salvato il Crotone, lo scorso anno: far passare le settimane senza aggiungere danni alle sconfitte. Insistere sul gruppo, sulla squadra, non disperdere il senso della storica promozione e ritrovare via via convinzione, togliendosi di dosso il senso di inadeguatezza, che è relativo: ci sono 5-6 squadre modeste in Serie A, si può lottare per la salvezza senza vergogna. Purtroppo, mancano certezze in attacco, Armenteros ha segnato in Olanda, Iemmello ovunque ma poco in serie A, Puscas è tutto da capire. Ali come D’Alessandro e Ciciretti possono dare prospettive tattiche, ma la cosa più importante sarà resistere all’avvio durissimo, e costruire una classifica silenziosa, per giocarsela più avanti con Crotone, Genoa, Verona e qualche altra squadra deludente che comincerà a cambiare allenatori distruggendo se stessa: ce ne sono ogni stagione, basta aspettare. Semplici allena una squadra più forte che ha corsa, tecnica, forza fisica, entusiasmo. Ferrara aggiunge cultura calcistica e una voglia antica. La Spal ha più possibilità e per questo più distrazioni. Il calcio di Semplici è corale e pratico, ha gli uomini giusti per muoversi bene e tenere il campo in quasi tutte le situazioni. Non deve spaventarsi di qualche risultato brutto, anche non previsto. Deve credere nel gioco, ha margine per sbagliare, e per raccogliere anche personalmente qualcosa di bello”.

Non possiamo chiudere senza fare un accenno alla “sua” Fiorentina: come ha vissuto questa campagna acquisti e come vede il futuro della squadra? E della società?

“La distanza fra la proprietà e la gestione sportiva e gli appassionati è ampia e lascia intrufolarsi nel solco qualsiasi discorso: pessimista, ottimista. La polarizzazione delle opinioni, anche lì a Firenze, è incredibile e non si spiega altrimenti. È una debolezza che i Della Valle coltivano, non so con quale strategia. Anche una vendita – lunga, lunghissima – va saputa gestire. Se invece è una tattica “politica”, allora la questione (stadio) va spezzata perché l’infrastruttura è decisiva e necessaria, e in questo momento assumerebbe anche un valore pratico di chiarire l’orizzonte alla proprietà. Eppure, come succede da tempo, in campo la squadra è all’altezza. La continuità a medio/alto livello è robusta, vera, autentica. E questo è merito di una proprietà che assicura proprio questa continuità. Sono andati via giocatori forti, infatti giocano in squadre che vogliono lo scudetto o le coppe. Quella distanza che ricordavo, ha distrutto una gestione normale di queste partenze, con i tentativi reciproci d’incolparsi, manco fossero i peggiori divorzi da film (ed è curiosamente successo con tutti i recenti e bravi allenatori). Io sono un tenace sostenitore della memoria come valore identitario e comunitario: per me anche una perdita va saputa valorizzare. Lasciarsi male è negarsi, la negazione corrompe una comunità. Sono convinto che una squadra si rafforza anche vivendola insieme, condividendola. Facendo pesare presenza e ruolo. Per questo anche i giudizi sulla società e la squadra sono così polarizzati e i Della Valle, in fondo, sono più avversati di quanto meriterebbero per i risultati. Ma questa industria del sogno si finanzia anche di sentimento, e il sentimento vuole cuore, occhi e voce. Penso che la squadra sia buona – non può essere meglio di settima e nemmeno peggio di decima. Nel suo risultato massimo ci sarebbe l’ultimo posto europeo e raggiungerlo avendo ringiovanito, risparmiato, ricostruito sarebbe un grosso risultato”.

Partiamo dalla panchina e andiamo… in campo.

Pioli – mi piace, tanto, da sempre ma io amo quel lavoro e ipervaluto tutti gli allenatori – ha dato metri e corsa alla squadra, gli acquisti finali (Pezzella, Thereau) hanno date certezze a un organico assai vario ma poco sperimentato. Chiesa in questo momento è il vero azionista di maggioranza/presidente della società: è lui il “discorso” con i tifosi, è lui che parla per tutti al resto del mondo. C’è un centravanti che deve segnare, ci sono due terzini nuovi che giovano dei disastri recenti dei loro colleghi per farci sperare (ma hanno bella corsa) e poi giocatori da amare o odiare senza preavviso (Eysseric, Dias) e c’è l’incoerenza tattica di Benassi, acquisto costoso, quasi una dichiarazione di “presenza”, ma difficile da incastrare in una squadra che non prevede mezz’ali. C’è una squadra, che tifo, da sempre, che mi porto dietro come il cognome, ereditato, indelebile e necessario, perché si è tifosi della propria squadra come lo si è della propria vita, di se stessi, dei nostri padri e dei nostri nonni, un simbolo così prematuro che resta innocente. Un’altra cosa che non ho mai capito è chi va allo stadio per appendere uno striscione, o anche per fischiare. Sembra scontato, sembra un diritto letto sul biglietto, quando al massimo c’è scritto dove sederti. Ed è uno squisito fatto culturale, ci sono società intorno a noi dove allo stadio si va. Si guarda, si partecipa, si incita, disinteressati dell’avversario e anche – in fondo – del risultato. Torniamo lassù, alla prima risposta, al pensatore francese. Allo stadio realizziamo noi stessi, il nostro contratto umano: io non fischierei mai il mio cognome”.

Matteo Pucci

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