le due squadre a raccogliere gli applausi al fischio finale

E’ difficile anche ricordarsi da quanto tempo non si vedeva uno stadio così pieno e festoso per una partita di calcio dilettantistico, considerando anche i due anni e mezzo che abbiamo passato nel frattempo.

Saranno stati almeno un migliaio i tifosi presenti al “Nesi” di Tavarnuzze per l’inedito derby Lebowski-Grassina di Promozione, a riempire non solo la tribuna anche tutti gli spazi a bordo campo lungo la rete di recinzione.

Un grande spettacolo e una certezza: se si vuole, si può tornare a riempire le tribune del calcio cosiddetto minore. A patto che si capisca che c’è bisogno di un lavoro non banale a monte.

Il Centro Storico Lebowski ovviamente in questo insegna: sono anni che, qualunque sia la categoria o l’avversario, i grigioneri sono seguiti da una delle tifoserie più calde e corrette a livello nazionale.

Grazie a un vero e proprio grande laboratorio che tiene insieme calcio e socialità, sport e impegno, scanzonatura e programmazione. Ma, appunto, non c’è nessuna improvvisazione. Col sorriso, ma anche con il sudore e la determinazione nelle proprie idee.

Sull’altra sponda, in settimana le Brigate Rossoverdi avevano lavorato con intelligenza per caricare l’ambiente e convincere i tifosi grassinesi a tornare a seguire i propri colori nonostante annate non certo felici: due retrocessioni di fila, il passaggio da una Serie D di alto livello all’attuale ultimo posto in Promozione (anche se la stagione è appena partita).

Nessuno ha smesso di cantare nonostante la sconfitta. E i supporters rossoverdi non avevano fatto mancare il loro apporto nemmeno all’esordio col Quarrata e neppure nelle amichevoli estive.

Ma anche in questo caso, non è qualcosa di spontaneo: c’è bisogno di guidare e dare forma all’attaccamente paesano ai proprio colori, in un’epoca di diffusa disaffezione.

Certo, ieri hanno aiutato anche la bella giornata di sole e l’assenza di partite di cartello in Serie A, compreso il posticipo della Fiorentina.

Ma non può essere l’unica chiave di lettura. Se si vuole tornare a riavvicinare la gente al calcio (o il calcio alla gente) c’è bisogno che le stesse società sportive trovino la chiave giusta per riannodare il senso di appartenenza al luogo, alla maglia, alla storia, alla condivisione di certi valori.

Tra le “nostre” lo ha saputo fare molto bene anche la Sancascianese nelle ultime stagioni. Serve anche un processo di emulazione, di autoalimentazione. Se lo fanno gli altri, perché non anche noi?

In questo calcio liquido di oggi, in cui si vedono in tv partite a ogni ora, c’è bisogno di una scintilla che convinca giovani, meno giovani, bambini, donne che vivere una partita dal vivo è tutta un’altra storia.

Senza retorica. Diciamolo: se la partita di ieri fosse stata giocata davanti alle “solite” cinquanta persone della domenica, probabilmente sarebbe stata da sbadigli, al netto delle tre belle reti (quella di Calbi bellissima).

A renderla spettacolare è stata la cornice completa: i colori, i cori, le esultanze, il rimbombo delle voci che salivano e scendevano per tutta Tavarnuzze.

Fidatevi di chi ieri era allo stadio. E di chi scrive e ha sempre pensato che una partita di Terza Categoria dal vivo è sempre più bella di una finale di Champions League dal divano di casa.

In tutto questo, poi, c’è l’assurdità di una burocrazia federale che tiene lontane Tavarnelle e San Donato in Poggio dalla prima stagione nei professionisti del loro San Donato Tavarnelle, costringendo i gialloblù a giocare di fatto nel deserto di un impianto, a decine di chilometri, che non potrà mai regalare le stesse emozioni dello stadio di casa.

Ma questa è un’altra storia, la faccia oscura della stessa medaglia.

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