Viaggiare low cost vuol dire anche passare interminabili giornate in aeroporti disseminati sul pianeta.

Jeddah è uno scalo internazionale nel mezzo del deserto arabico. Fuori c’è una tempesta di sabbia, che oltre a spostare miliardi di particelle di azoto da una parte all’altra del globo, contribuisce a incasinare il tabellone delle partenze.

Non so nemmeno che giorno sia di preciso, in questa specie di purgatorio dove vaghiamo come anime sospese.

Sul mio quaderno scrivo:

“Jedda, 7 o 8 gennaio 2018.

Siamo in questo aeroporto da circa otto ore e avremo visto diecimila facce. Ognuna chissà come, chissà cosa.

Ci sono cinque ragazzi seduti qui davanti. Bestioni con le teste rasate. Si massaggiano e si coccolano a vicenda per sopportare meglio l’attesa.

Hanno visto il moschettone agganciato al mio zaino e vogliono sapere se arrampico. Non parlano inglese.

Sono tifosi ultras di non so quale squadra turca. Io di calcio non so proprio niente, ma troviamo un punto di incontro nella figura mitologica di Batistuta.

Quello di loro che mi dava l’impressione che gli stessi sul culo è il primo a porgermi la mano quando vanno via.

Alzo la testa e al loro posto altra gente si è seduta. Altre facce, altre storie, altre vibrazioni umane suonano una musica che è anche la mia.

Si condividono caramelle e biscotti.

Si, è vero che ognuno sta per conto suo, ma non ci ignoriamo.

Si sorride”.

Didje Doo

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