Raja Ampat, West Papua. Il paradiso. Uno dei luoghi più belli e più faticosi da raggiungere per coloro che vivono nelle cosiddette zone sviluppate del pianeta.

Una zona così remota che la legge del governo nazionale non ha valore di fronte alla legge delle tribù locali.

La benedizione di trovarmi in situazioni dove i miei interlocutori non parlano la mia lingua, né io la loro. Ecco che il termine “comunicazione” diventa vero come mai è stato per me.

Nudo e crudo. Un concetto che diventa l’essenza stessa del mio esistere. Ciò da cui tutto dipende: le mie sorti e persino la mia identità.

Nessuna lezione è stata mai più penetrante di questa. E allora eccomi qui, che saltello mimando cose che non vedo, ne indico altre col dito, esagero espressioni con la faccia.

Qualcuno ride, e rido anch’io ma a tratti la frustrazione mi assale.

Ci sono mille demoni che si svegliano quando si tratta di comunicazione. Ed ognuno ha due facce, che guardano contemporaneamente i due interlocutori.

C’è la fiducia, la paura, l’aspettativa, l’incertezza e la pazienza, per citarne solo alcuni tra i più potenti. Vorrei conoscere il nome di ognuno di loro.

Ciò che mi chiedo è: a casa mia, nel mio Paese, questa difficoltà non esiste solo perché parliamo la stessa lingua?

No, non è così. La parola non è che una goccia nel mare.

Certe dinamiche neanche si immaginano finché non ci si addentra nella giungla della vita vera. Si tende a dare per scontata la padronanza di abilità che non abbiamo minimamente.

In situazioni come queste, torniamo ad essere umani. Torniamo a cercare il legame profondo che esiste tra gli uomini perché si sente che senza quello non esiste nulla! Non c’è sostanza, non c’è verità!

Didje Doo

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