TAVARNUZZE (IMPRUNETA) – Condividiamo con grande piacere una lettera aperta, diffusa dal Centro Storico Lebowski, alla vigilia della sfida casalinga contro l’Armando Picchi, per il girone C di Promozione.

Una lettera che ci racconta quanta bellezza ci può essere nello spesso (giustamente) bistrattato mondo del pallone.

Pochi anni fa sono diventato un insegnante di ruolo. Durante l’anno di prova il Ministero dell’Istruzione mi ha inviato un questionario in cui mi invitava a riflettere sul mio curriculum formativo.

Mi è stato chiesto quali sono state le tre esperienze fatte in passato che si sono rivelate significative per la mia professionalità.

Ho risposto: la sala insegnanti della scuola Ex Pirelli. Il dottorato di ricerca. Aver giocato a calcio per 17 anni (Torino Calcio, Armando Picchi, Rosignano, Pro Livorno, Gabbro, A.C. Spes, Centro Storico Lebowski) e allenato per un semestre i bambini della scuola calcio della Pro Livorno Sorgenti.

In particolare “l’esperienza decennale con l’Armando Picchi, una delle società più importanti del panorama sportivo toscano, mi ha permesso di crescere all’interno di un ambiente molto attento agli aspetti formativi dei suoi tesserati”.

Il Miur mi chiedeva inoltre di precisare cosa avevo imparato da questa esperienza e come ha inciso sulla mia professionalità. Più o meno ho risposto così.

Nell’estate del 1987, a 7 anni, a causa di terribili dolori alla pancia mi ricoverano in ospedale per una sospetta ernia. Chi mi visita, oltre che confermare il sospetto, scopre che ho un’appendicite acuta. Mi operano d’urgenza.

Al risveglio sul comodino della stanza compare il modellino di un’auto da Formula 1, il più lungo e preciso mai visto. Intorno al letto tanti miei amici. Capisco che non deve esser stata un’esperienza banale. Cercano di consolarmi.

Dario Serpan prende la parola per tutti: “Riprenditi che il prossimo anno vieni a giocare con noi nell’Armando Picchi Calcio”.

A quell’annuncio mi sarei voluto alzare immediatamente dal letto con il rischio di strappare tutti i punti sull’addome e correre subito al campo dei Salesiani, la mia nuova casa sportiva, non troppo lontano da quella stanza d’ospedale. Il Picchi all’epoca era semplicemente il top.

Era stato fondato nel 1971 da Leo ed Enzo Picchi, rispettivamente fratello e cugino di Armando, con la collaborazione dell’Inter. Il Livorno Calcio in quegli anni non aveva un proprio settore giovanile. Lo costituì nel tempo, ma non era minimamente all’altezza di una squadra professionista.

Quello del Picchi sì e rinomato a livello nazionale, anche grazie ai due titoli di campione d’Italia dilettanti nelle categorie Allievi (1973) e Juniores (1974) di cui si potevano ammirare coppe e gagliardetti nella sede dei dirigenti, quando si andavano a sbrigare le pratiche annuali.

Un monito e una spinta a fare altrettanto. Sono rimasto nell’Armando Picchi per dieci anni. Credo che in pochi possano vantare una permanenza così lunga in quella società.

Non ero un fenomeno e non so nemmeno se qualcuno calcisticamente si ricorda di me.

Avevo dalla mia la consapevolezza di essere nel posto ideale per imparare a giocare a calcio e crescere da tutti i punti di vista.

Ho cercato ogni settimana di sfruttare l’occasione di imparare le basi della vita divertendomi con un pallone: un gioco bellissimo che in quel contesto era oltremodo serio e formativo e ha generato in me un profondo senso di appartenenza.

Per questo non ho mai sentito l’esigenza di cambiare quella situazione, non mi sono mai stancato delle persone e delle cose che avevo intorno ed ero poco curioso di conoscere altri contesti: ogni anno ricominciava con più voglia e determinazione del precedente.

Avevamo una struttura impressionante agli occhi di noi ragazzini, dominata da un campo d’erba impeccabile, una rarità a Livorno.

I giovani più forti in circolazione giocavano con te o prima o poi diventavano i tuoi compagni di squadra. Gli allenatori avevano alle spalle esperienze di calcio importanti, c’erano preparatori atletici che ti spingevano a prestazioni fuori dal comune imponendoti sacrifici fisici e mentali impressionanti, replicando le preparazioni estive dei nostri pari età dell’Atalanta.

I dirigenti erano monumenti viventi che intervenivano anche in ambito educativo, richiamandoti a comportamenti corretti e rispettosi verso tutto l’ambiente, i tuoi compagni e gli avversari facendo attenzione alla nostra salute fisica e all’andamento scolastico.

La società garantiva un vestiario che non aveva confronti con le altre realtà e pretendeva che ci allenassimo con il corretto abbigliamento o che ci presentassimo la domenica dando già l’immagine di essere giocatori di un’unica squadra.

Un ritardo agli allenamenti e si tornava negli spogliatoi. Senza la felpa di rappresentanza ci si accomodava in tribuna.

Il colore della maglia era un altro richiamo alla grandezza del club. Prima a strisce nerazzurre in omaggio alla vicinanza dell’Inter, poi per noi della scuola calcio una parentesi azzurra per l’accordo con il Napoli e infine l’amaranto che ha sancito la ricollocazione cittadina e la collaborazione con il Livorno Calcio.

Conservo nell’armadio ancora tutto il materiale ricevuto, e con particolare affetto le prime tute da all’allenamento della scuola calcio nonché una maglia nerazzurra, di lana come usava all’epoca, forse della prima squadra, regalo del magazziniere della società Ambrosini a noi “bimbi”.

Eravamo una società seguita dalle squadre professioniste. Ricordo i provini con società di serie A e B, uno anche individuale con il Brescia.

Non era raro che qualcuno spiccasse il volo: Stefano Brondi (uno dei miei futuri allenatori), i fratelli Lucarelli, Alessandro Arricca, “l’erede di Rijkaard”. E tra i miei compagni Daniele Lorenzini, Enrico Bettarini, Simone Giuliani, tanto forti quanto poco fortunati nelle loro carriere.

Io non ho mai giocato in prima squadra che all’epoca stanziava tra la Promozione e l’Eccellenza e in seguito ha disputato sei campionati consecutivi in serie D.

In Promozione però ci ho giocato anch’io, poche settimane dopo aver lasciato il Picchi, ed è curioso l’aneddoto che ha permesso il mio esordio. Nel 1998 ero passato agli juniores del Rosignano, una società che da anni otteneva ottimi risultati con il settore giovanile.

Dopo pochi allenamenti viene organizzata una partitella in famiglia, tra noi e la prima squadra. “Tu marchi Raiola”, mi comunica il mio allenatore.

“Ah…”, sbianco. Sapevo perfettamente chi era Franco Raiola…il mio idolo. Un attaccante fortissimo, di cui mi fermavo a vedere le partite la domenica ai Salesani, dopo aver concluso le attività della scuola calcio. Uno che con la maglia dell’Armando Picchi ha totalizzato più di 100 goal, traguardo per il quale fu premiato dalla società con una medaglietta d’oro.

Quel pomeriggio però Franco non segnò e io ebbi l’impressione di non averlo marcato male. Impressione confermata dal passaggio in prima squadra la settimana successiva. Alla guida della macchina che mi porta al campo sportivo di Rosignano c’è proprio Franco.

“Sai perchè sei con noi?”. Certo che lo sapevo. “Franco, per te era una partitella d’allenamento… io stavo marcando il mio idolo. Mentre la domenica tu segnavi con il Picchi, io ero tra i bambini che esultavano sulle tribune…”.

Fu un bell’anno anche a Rosignano, iniziato nei bassifondi e finito ai primi posti della classifica. Da lì, però ho messo il calcio in secondo piano rispetto agli studi universitari e pare sia stato meglio così.

Almeno fino alla chiamata del Centro Storico Lebowski, nel periodo del mio dottorato a Firenze. Avevo smesso da sette anni.

La squadra era in Terza categoria. Ma con una cinquantina di tifosi scalmanati che rendevano unica quell’esperienza. Un anno con la maglia grigionera seppur nella più infima delle categorie mi ha fatto capire cosa prova un professionista giocando in uno stadio vero. Perché non è mai banale ripetere che il calcio non esiste senza i tifosi.

O forse può anche esistere, ma non regalerà mai le stesse emozioni a chi è dentro il campo. Giocare con qualcuno che dagli spalti tifa per i colori che indossi è l’apoteosi per ogni calciatore.

In più al Lebowski percepivi che ogni domenica il pubblico si inventava una finale a cui eri invitato a partecipare da un posto privilegiato.

Mi è bastato poco per capire che mi sarei portato quell’esperienza nel cuore per sempre, come dice un coro della curva Moana Pozzi, e dal primo all’ultimo secondo in cui ho vestito la maglia grigionera ho dato tutto quello che potevo per onorarla.

Oggi la terza categoria è lontana. Si gioca e ci si allena in un proprio stadio, i tifosi sono centinaia, si sono vinti tanti campionati, è nata una scuola calcio pazzesca, una squadra femminile, gli juniores. Gioca con la maglia grigionera uno come Diego Alejandro Cubillos.

E’ così lontana quella terza categoria che addirittura domenica il Lebowski ospiterà l’Armando Picchi. Non credo sia necessario aggiungere altro.

Concludo, pensando che domenica alle 15.30, al di là delle cose che succederanno in campo, che sono e resteranno “cose” di campo, mi piacerebbe che il Lebowski si mostrasse orgoglioso di quelli che saranno i suoi ospiti.

Io so, da giocatore, di essere riuscito a farmi apprezzare dalla famiglia grigionera, ed è una delle consapevolezze di cui vado più fiero nella vita. Se però anch’io ho giocato ogni partita del Lebowski come una finale, il merito è anche di chi, domenica, affronterete nel vostro stadio.

Alessandro Doranti

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