SAMBUCA (TAVARNELLE) – Trentacinque anni tra i pali, mica uno. Ha cominciato a Tavarnuzze quando aveva sei anni, Massimo Papi, e ha finito domenica scorsa con la maglia della “sua” Sambuca contro il Castellina Scalo.

Gli ultimi 88 minuti prima di lasciare il posto a Cianti e ricevere la standing ovation dei suoi tifosi.

Stavolta dice che è vero, che non cederà alle insistenze di chi gli chiede di continuare ancora come era successo un paio di anni fa: “Ancora mi devo rendere conto di quello che è successo – prova a ragionare – Ma stavolta sento che è giusto finirla qui, a 41 anni, con una famiglia, una moglie e due figlioli. È dura smettere ma è giusto farlo adesso, anche se il fisico reggerebbe ancora”.

Se ne è tolte di soddisfazioni in tutti questi anni con la maglia con il numero uno sulla schiena: inizio a Tavarnuzze (“avevo cominciato come centrocampista, ma non la strusciavo proprio: dopo qualche mese mancavano i due portieri, mi proposero di provarci, intravidero in me qualche qualità e non ho più lasciato i pali” racconta), poi sei stagioni al Galluzzo, quindi il grande salto al Prato, tra Berretti e Serie C, accanto a un certo Andrea Pazzagli e a Marco Ambrosio e prima dell’arrivo di un altro che di carriera ne ha poi fatta come Carlo Cudicini.

Quindi tante altre esperienze in giro per la Toscana: la Fortis Juventus in Serie D, il San Piero a Sieve, la Vaianese, la Virtus Poggibonsi, l’Audace Legnaia e poi quasi una decina d’anni alla Sambuca, fino a domenica scorsa.

“Non ho mai tenuto il conto preciso – dice Massimo – ma penso che, compreso il settore giovanile, siamo a più di mille partite. Ed è proprio dura lasciare, ma arriva un momento in cui il tempo ti presenta il conto. Al tempo non sfuggi”.

Non sa ancora se rimarrà o rientrerà nel mondo del calcio: “Adesso devo staccare per un po’, non mi pare ancora nemmeno vero di aver smesso. Di sicuro non voglio smettere di fare sport, di rimanere in forma: andrò in palestra, andrò in bicicletta, di sicuro non mi voglio fermare”.

Domenica non è stata una giornata facile. Bellissima per l’affetto ricevuto sul campo (compreso uno striscione e un messaggio strappalacrime sui social da parte dei compagni), ma difficile da affrontare per tutta quella pioggia di emozioni in arrivo: “Prima della partita mi è passata tutta la carriera davanti, dal primo calcio a un pallone all’ultima partita. Tutti i compagni, tutti gli avversari, tutti gli episodi successi, tutte le partite. Come guardare un film. Ringrazio tutti quelli che ho incontrato in questi anni, compagni e avversari. Ho provato a dare tutto me stesso in questi anni, anche a livello umano. Spero di esserci riuscito”.

Ha vissuto almeno due o tre generazioni di portieri. Da giovane ha incrociato da avversari portieri che avrebbero fatto strada, come Buffon al Parma e De Sanctis al Pescara, per dirne due più o meno suoi coetanei.

“Il modello della mia generazione era Walter Zenga – racconta – ma era un calcio molto diverso da quello di oggi, molto più complesso adesso”.

Se gli chiedi quale sia stata la sua specialità risponde così: “Tra i pali”. E se gli domandi un nome di un attaccante che gli faceva sempre gol, ti risponde secco: “Jack Gotti, il bomber di Quercegrossa, Pianella e altre squadre. Un vero incubo. Ogni tanto ci sentiamo ancora, così come sui social succede con diversi avversari di un tempo”.

L’ultima grande parentesi è stata quella della Sambuca: pallone, famiglia e lavoro tutto nel giro di pochi chilometri. Gli anni sono passati veloci: “A volte penso che quando ero in C al Prato qualcuno dei miei attuali compagni di squadra ancora doveva nascere. E allora capisci che è giusto lasciare spazio anche agli altri”.

Ha detto addio lasciando la Sambuca al settimo posto, un soffio fuori dal play-off: “Peccato davvero, perché è mancato pochissimo a farcela. Peccato non averci creduto un po’ di più nelle ultime partite, sarebbe bastato poco”.

Gabriele Fredianelli

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