TAVARNUZZE (IMPRUNETA) – E’ una lunga spiegazione, articolata, a tratti anche filosofica, quella che il Centro Storico Lebowski fa della mancata qualificazione dell’Italia ai mondiali.

Un evento che i grigioneri utilizzano (con le parole del responsabile della loro scuola calcio, ma al CS le parole di uno sono le parole… di tutti) una volta di più per evidenziare la loro filosofia di calcio. Che è, anche, una filosofia di vita.

Lo ospitiamo con grande piacere.

L’ELIMINAZIONE DELLA NAZIONALE SPIEGATA (NON IN MODO BREVE) A MIA MAMMA

Sembra ovvio a tutti che Italia-Svezia sia un buon punto di partenza per parlare di come sta il calcio italiano. Io non penso che sia così.

Dal punto di vista tattico l’analisi della partita è abbastanza semplice: in estrema sintesi, le correzioni fatte da Ventura per non regalare a una Svezia più prestante l’opportunità di difendere in modo ordinato il centro della propria area di rigore sono fallite. I giocatori italiani non hanno saputo trovare le giuste soluzioni per disorganizzare le solide linee avversarie. Quindi, in assenza di un colpo di classe o di fortuna, hai perso.
Sul perché sono fallite o su cosa si potesse fare di diverso, si può discutere a lungo. In tantissimi hanno detto la loro, e questo è giusto, fa parte del carattere popolare del gioco. Però uno sguardo sui contenuti venuti fuori è utile per fare il punto sulla cultura calcistica del Paese.

C’è un articolo de l’Ultimo Uomo che raccoglie tutte le analisi più divertenti sulla sconfitta dell’Italia. E’ un piccolo manuale sulla pochezza della riflessione pubblica in merito: «E’ colpa di Renzi», «E’ colpa della scomparsa della magia», «E’ colpa degli stranieri», «E’ colpa del magna magna», «E’ colpa del capitalismo», «E’ colpa del fatto che non c’è lo Ius Soli», «E’ colpa del declino del Paese». Il livello di queste analisi è buono per ispirare Lercio.

Se si entra nel merito sportivo prendono parola gli addetti ai lavori: è colpa di Ventura, è colpa di Tavecchio, però è anche colpa di Allegri, è colpa del ritardo dei Centri Federali, è colpa del numero di stranieri nel settore giovanile, è colpa degli allenatori di base che non fanno più tecnica di base, è colpa delle società che sacrificano la formazione del giovane calciatore per il risultato, è colpa del fatto che non ci sono più gli oratori di una volta dove fino a 13 anni crescevano «giocatori come Costacurta e Panucci», è addirittura colpa che si gioca meno a calcio in strada, come se in Svezia giocassero a calcio per strada più di qui. Molte cose sono vere, non voglio certo sostenere il contrario. Ma non mi bastano.

Facendo calcio tutti i giorni e dovendo rispondere in continuazione a un milione di domande, mi sono dato una regola: non resto a parlare di calcio più di tre minuti con chiunque non sia disposto ad ammettere che siccome la palla è rotonda e i quarantaquattro piedi abbastanza squadrati, in campo il caos regna sovrano.

La vittoria significa la capacità di reagire in un modo efficace a una serie di eventi di fatto imprevedibili.

Il bello del gioco è che muta ogni secondo per una serie di fattori infiniti. E’ impossibile dare una spiegazione univoca a un evento che tiene in sé così tanti elementi sociali, tecnici, tattici, emotivi, psicologici, economici e anche casuali. Non c’è partita che non possa essere persa, qualsiasi cosa tu abbia fatto per prepararla al meglio, perché poi sono i giocatori che in ogni momento devono trovare le soluzioni giuste. Per questo motivo, non credo che Italia-Svezia possa essere il punto di partenza per parlare dei problemi del calcio italiano.

Provo a riassumere invece i problemi che vedo: il modello di calcio che viene promosso a livello globale è incentrato sulla rivalità tra grandi Club, che di fatto sono grosse imprese in concorrenza tra loro.

L’appeal di queste imprese è costruito dalla disponibilità finanziaria che hanno per investire su giocatori «pronti», ossia immediatamente redditizzi. Questi giocatori possono essere autoctoni o extracomunitari, cugini del direttore sportivo o Rom. Non è importante. Tutti sono «stranieri», perché vengono usati «usa e getta» dai Club oppure sono loro a usare «usa e getta» i Club. Sono sempre «stranieri» perché l’appartenenza in questo sistema non conta nulla. Sono brand, non bandiere.

Quando le affermazioni contro i troppi stranieri nel calcio italiano non sono puro sciacalaggio alla Salvini, sono un sintomo del fatto che il calcio senza appartenenza è un prodotto che luccica ma che non fa innamorare. Non è la presenza degli stranieri a levare autenticità al nostro calcio: l’appartenenza è un legame che nasce dal sentimento di aver fatto un lungo cammino insieme. Se quel cammino è impossibile il senso di appartanenza non si genera e in qualsiasi piazza iniziano i problemi alla prima crisi di risultati. Altro che «oltre il risultato».

In questo scenario ultraliberista, anche le accuse di «essere un raccomandato» cambiano di segno. In realtà il calcio, avendo il problema che il risultato ti mette a verifica ogni domenica, lascia meno spazio ai raccomandati di tanti altri impieghi.

Mi hanno raccontato questo aneddoto: il figlio di Mastella giocava nella primavera del Napoli però in prima squadra non ci ha mai messo piede. Se fosse stato un medico, avrebbe fatto il primario. A essere «raccomandati» sono i giocatori dei fondi di investimento e, nelle serie minori, i giocatori che portano uno sponsor. Cioè, sono i giocatori che fanno girare soldini.

Nel calcio professionistico, fuori da queste grandi squadre che attirano capitali e tifosi globali e restano competitive, le altre sono destinate al ridimensionamento e alla contestazione.

A peggiorare il tutto, le piccole cercano di imitare i modelli di business delle grandi. Invece di lavorare per accrescere il loro radicamento nella comunità e per estrarre risorse dal loro territorio, scimmiottano i modelli deterritorializzati delle big. Ma tanto il Cagliari, il Brescia e lo Juve Stabia non saranno mai la Juventus o il Manchester United, cioè non li venderai mai fuori dal loro territorio o dei suoi emigranti. Risultato: stadi sempre più vuoti, campionati noiosi, entusiasmo a picco.

Nel calcio dilettantistico, fallimenti a ripetizione, dequalificazione, settori giovanili e scuole calcio lasciati andare in malora: i territori vengono improvvisamente privati di uno strumento fondamentale di socialità e salute.

Questa è la tendenza del calcio italiano.

In questa situazione, che fare? Ci tengo a non passare per ridicolo, quindi non mi metto a dare ricette per la FIGC e i Club professionistici. Mi limito a riflettere brevemente sulla mia esperienza di dirigente di un’associazione sportiva dilettantistica e di responsabile di una scuola calcio. Se poi queste cose possono essere utili anche per i professionisti, lo sapranno loro.

Se un Club intende campare di mecenatismo, di sponsor e di aiuti politici, è sempre sull’orlo del precipizio. Il mecenate si stanca o si impermalosisce, lo sponsor ha meno liquidità, il politico perde le elezioni o l’interesse per te. Ogni Club rappresenta un territorio. E del coinvolgimento del territorio deve campare. Di appartenenza. Se in tanti danno poco, il Club ha un futuro garantito e una base solida su cui programmare. Di regola, un Club dovrebbe investire nel suo progetto sportivo non un euro di più quanto la mobilitazione del territorio a suo sostegno gli permetta. In caso contrario, iniziano le distorsioni.

E cosa vuol dire per un Club coinvolgere il territorio? Significa, in un’epoca in cui purtroppo dei punti di riferimento storici vengono a mancare (in primis le organizzazioni storiche del movimento operaio), essere un punto di riferimento simbolico e materiale per la comunità. Un Club deve essere consapevole di avere le risorse per occuparsi dei temi che sono maggiormente sentiti dalla popolazione.

Manca la cultura del fatto che lo sport è un elemento indispensabile per la salute di un territorio, oggi resa precaria dai tagli alla sanità, e che il Club ha un enorme potere di azione su questo tema.

Manca la cultura che il Club può essere uno straordinario strumento di valorizzazione del patrimonio artistico e naturalistico di un territorio.

Manca la cultura che il Club può essere il centro di una rete di solidarietà capace di stringere i legami di un territorio.

Se ci si pensa, lo stadio è spesso lo spazio più grande che ogni comunità ha a disposizione: invece di essere sempre chiuso potrebbe ospitare le iniziative delle tante realtà del territorio che faticano a trovare i giusti luoghi. Inoltre, la potenzialità del Club di raccogliere volontari è notevolmente alta.

Soprattutto, manca la cultura che la scuola calcio, con 300.000 bambini iscritti ogni anno, è la terza agenzia formativa in Italia dopo famiglia e scuola.

Non si può fare scuola calcio senza avere questa consapevolezza. Senza avere forti legami con gli istituti scolastici. Senza che gli istruttori non siano formati anche come educatori e che non siano riconosciuti per il ruolo fondamentale che svolgono. Non si può fare e la FIGC sbaglia a non comporre un piano serio per cambiare la situazione.

A questo punto, avrebbe maggior senso il lavoro impostato sui Centri Federali. Andrebbero concepiti come strutture che si occupano di coordinare il lavoro di un territorio. E’ poco utile fare i Centri Federali se i Club rimangono chiusi al cambiamento. Diventerebbero, nel migliore dei casi, oasi nel deserto.

Se i Club lavorassero in queste direzioni sarebbero meno giudicati per i risultati sportivi, perché il loro ruolo sociale sarebbe straripante.

Guadagnerebbero nuovi tifosi, perché sempre più membri della comunità si sentirebbero rappresentati dalle sorti di un Club che li accompagna nella vita quotidiana e che loro magari accompagnano come volontari e soci. Avrebbero lo stadio pieno.

E lo stadio pieno abbassa il monte ingaggi, perché i calciatori per venire a giocare nel Lebowski rinunciano a centinaia di euro di rimborso pur di ricevere le emozioni giuste.

In sintesi, le due domande che ogni addetto ai lavori deve mettere come guida per l’azione sono: quello che sto facendo rafforzerà la mia comunità? Aiuterà a riempire lo stadio? Il calcio è bello se racconta le storie di una comunità, sennò alla lunga perde l’anima.

Questo mi pare valga anche per il professionismo. Qualche anno fa sono stato alla Festa della Dea, a Bergamo, una cosa meravigliosa. Mi domandavo perché l’Atalanta non ricavasse benefici tangibili dall’entusiamo impagabile di quell’immensa comunità radunata nei tendoni allestiti dagli ultras. Poco tempo dopo, una squadra con un monte ingaggi basso (e un settore giovanile strepitoso) vince le partite in Italia e in Europa, perché l’appartenenza crea le condizioni per una maggiore intensità e una maggiore sostenibilità economica.

Si potrebbe chiedere: che c’entra tutto questo con la sconfitta della nazionale. Poco. Fatte queste cose, sarà sempre possibile perdere con la Svezia. Ma a quel punto uno si volterebbe indietro e vedrebbe stadi pieni, comunità di tifosi che valorizzano il proprio territorio, consultori sanitari negli impianti sportivi, scuole calcio che aiutano bambine e bambini a scoprire il proprio corpo, istruttori educati al senso del gioco formare giocatori pensanti, genitori coinvolti nella gestione del Club e non nella esaltazione/mortificazione del figlio. La sconfitta apparirebbe meno il segno di un’epoca. E vedrai che alla fine escono fuori anche giocatori boni.

Il nostro terzo gol di domenica scorsa contro la Grevigiana. Contiene quasi tutto. La gioia di un ragazzo che a 17 anni segna nei dilettanti un gol decisivo e corre sotto la curva in festa.

Il presidente che fa il guardalinee perché non fa il mecenate ma il primo dei volontari. Il cameraman che strilla come un pazzo.

Una squadra e una tribuna composta da gente che arriva da diverse parti del mondo, ma che si sente di appartenere a un unico gruppo. Un mister che è qui da 6 stagioni.

Lo stadio pieno, perché se non lo fosse non avremmo materialmente le energie per mandare avanti la baracca. Gente che arriva allo stadio ore prima della partita, perché sa di trovare qualcuno che è arrivato ancora prima.

Nessun poliziotto, nessuno steward impomatato. I bimbi della nostra scuola calcio e quelli del Tavarnuzze in massa ad esultare in mezzo agli ultras invece di stare a casa su Sky, perché anche loro già sentono di appartenere a qualcosa.

Bisogna iniziare ad agire al contrario: prima si riempie lo stadio, poi si può pensare a passare di categoria, a fare risultato.

Sennò si fanno le figure di m…e di queste «grandi partite» di serie D ed Eccellenza che sui quotidiani se ne parla per giorni, in campo ci sono 200.000 euro che giocano e in tribuna a vederli sette mohicani.

Lo stadio è quasi pieno, VENCEREMOS!

@RIPRODUZIONE RISERVATA

La redazione di SportChianti dà spazio, ogni giorno, a tutti gli sport nei comuni chiantigiani: calcio, pallavolo, basket, pallamano, baseball, karate, danza, ginnastica, ciclismo...